Una riforma del welfare che guardi alle donne e a un piano per l’infanzia

di Titti Di Salvo

(Photo by Jenny Evans/Getty Images)

Il Recovery Fund dovrà finanziare le riforme che servono al Paese per superare i limiti che da prima della pandemia ne hanno condizionato la crescita. In primo luogo i limiti della rete di protezione sociale, del welfare, resi evidenti dal livello della occupazione femminile molto al sotto della media europea, dai numeri della povertà assoluta dei bambini molto al di sopra della media europea, da quelli della denatalità. Limiti di impostazione culturale, di risorse dedicate, di distribuzione delle risorse dedicate tra i vari capitoli. Esito della somma di stereotipi culturali per i quali sono state le donne il vero welfare del Paese e della evoluzione lenta della struttura produttiva e sociale. Limiti conseguenti allo stesso sistema di finanziamento del welfare, prevalentemente a carico del lavoro dipendente e delle imprese. Con il risultato di una rete di protezione sociale non universale, ancorata al mercato del lavoro del 900, incapace di includere per paradosso le persone e le famiglie più fragili. Come appunto dicono i dati.

Per affrontare quei limiti non sono sufficienti le politiche pubbliche ed è necessaria la presa d’atto della centralità del loro superamento per la ricostruzione di un Paese più equo, più moderno, più forte. Della necessità cioè di riformare il welfare in senso universale e contemporaneo, come motore esso stesso di cambiamento.

La pandemia ha determinato un’ulteriore riduzione di occupazione femminile presente nei settori più colpiti dalla crisi e un ulteriore aumento della povertà minorile e delle diseguaglianze. Prima del Coronavirus erano 1.200.000 i bambini stimati in povertà assoluta. Solo il 25 per cento di bambini avevano accesso al nido, sommando la frequenza nei nidi pubblici, convenzionati e privati. Con fortissime differenze territoriali e il paradosso della carenza di servizi educativi dove sarebbero serviti di più. E d’altra parte è ormai certo che la diseguaglianza come destino metta le proprie radici nei primi 1000 giorni di vita dei bambini. Proprio in quella fascia di età rispetto alla quale è più carente l’investimento pubblico. Il lockdown, e questo tempo lungo di distanziamento sociale, ha aggiunto l’isolamento educativo, che ha reso ancora più fragili i bambini e i ragazzi delle famiglie più in difficoltà.

L’ultima legge di bilancio ha introdotto alcune novità significative dal punto di vista del cambiamento di impostazione del welfare. L’assegno universale per i figli, appunto universale e non determinato sulla base del rapporto di lavoro dei genitori. L’indennità di disoccupazione per le partite Iva. Novità di impostazione, inclusive, ma non sufficienti. Decisive se parti di un cambiamento generale. Anche a questo fine è determinante la presenza nel Recovery fund della riforma del welfare e delle risorse per finanziarla.

All’incrocio tra i nodi dell’aumento dell’occupazione femminile, del piano strategico per l’infanzia, del contrasto alla denatalità, ci sono le politiche attive del lavoro, la formazione permanente, il diritto al digitale, le politiche di condivisone del lavoro di cura e soprattutto gli investimenti per le infrastrutture sociali. In particolare il potenziamento dei servizi educativi e scolastici per i bambini da 0 a 6 anni. La quantità di risorse messe a disposizione su questa voce, in modo da rendere credibile l’obiettivo dell’accessibilità per il 60 per cento dei bambini, farà capire di quale futuro si parla quando si parla di futuro del Paese.

In questi giorni la discussione sui contenuti del Recovery fund è stata al centro della discussione dei partiti e del governo. Con toni e modalità che ne hanno fatto perdere il significato, al limite della rottura con il senso comune del Paese piegato dalla pandemia. Il testo approvato in Consiglio dei ministri arriverà in Parlamento dove è giusto che le scelte e dunque le responsabilità vengano assunte. Ma insieme a una crisi di governo di cui, secondo i sondaggi, la metà degli italiani non capisce il senso, di cui l’Italia non ha bisogno. E che va risolta al più presto. Per tornare a parlare di futuro. Il futuro del Paese è bene venga discusso anche fuori dal Parlamento. Per due ragioni. Perché per disegnarlo c’è bisogno del punto di vista di chi rappresenta le parti sociali. E del punto di vista di quelle associazioni che in questi mesi hanno elaborato pensieri di futuro. Penso alle voci collettive di tante donne, unite nella campagna “Donne per la salvezza “come “Half of it”, Datecivoce, Le Contemporanee, il Giustomezzo. E perché per realizzare le riforme che servono non sono sufficienti le politiche pubbliche, ma azioni e scelte di tutti gli attori sociali coerenti con gli obiettivi condivisi. Al governo spetterà la responsabilità di convocare il Paese, non gli Stati generali, per un patto sul futuro. Ed è questo che serve all’Italia.

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