Al paese serve un patto per l’occupazione femminile.

di Titti Di Salvo

[Pubblicato il 13 dicembre 2021 su Le Contemporanee]

L’Istat ha comunicato in questi giorni che a ottobre cresce soltanto l’occupazione maschile, di 35.000 unità. Anche su base annua oltre i due terzi della crescita complessiva degli occupati ha riguardato uomini. 271mila occupati in più sulle 390mila persone complessivamente assunte. D’altra parte l’Ispettorato del lavoro nella sua relazione annuale a settembre aveva confermato che nel 2020 ci sono state 42000 dimissioni consensuali di genitori con figli da 0 a 3 anni. La stragrande maggioranza, il 77 per cento mamme.

Se per gli uomini la ragione della dimissione è stato il cambio di posto di lavoro, per le donne – per 3 su 4 – la ragione è stata la difficoltà di tenere insieme il lavoro con la cura dei figli. In un paese civile, e pure in crisi demografica, i dati ISTAT e quelli dell’Ispettorato, collegati tra di loro, provocherebbero una reazione immediata ed energica. Così non è. Cosi non è stato. 

Senza sottovalutare l’importanza dell’assegno unico come segno del cambiamento in senso universale del welfare. Apprezzando il riconoscimento implicito della maternità, paternità e della cura dei bambini come valore pubblico. Senza sottovalutare neppure il vincolo dell’ assunzione di donne per le imprese che utilizzeranno le risorse del PNRR. Scelta importante la cui efficacia e’ però ancora tutta da dimostrare. Anche per le diverse eccezioni previste. E ricordando anche gli incentivi previsti da più leggi di bilancio per incentivare l’occupazione femminile. Che però non hanno avuto molto successo. 

La realtà dei numeri svela infatti due verità.

Manca nella classe dirigente diffusa la consapevolezza dell’impatto sulla mancata modernizzazione del paese, pre-Covid, della bassa partecipazione al lavoro delle donne. Il suo aumento avrebbe un impatto più che proporzionale sul PIL perché’ determina occupazione di altre donne nei servizi, aumento dei consumi e aumento della natalità. E in secondo luogo manca la consapevolezza che per aumentare l’occupazione femminile non servono azioni spot. 

Per centrare l’obiettivo bisogna in primo luogo indicarlo esplicitamente al paese come interesse pubblico, cioè come scelta che più di altre ha ricadute positive per tutta la collettività. Poi, e di conseguenza, servono comportamenti coerenti delle imprese nelle assunzioni e nella organizzazione della produzione; delle organizzazioni sindacali nelle piattaforme dei rinnovi contrattuali, delle amministrazioni pubbliche negli orari delle città e nell’organizzazione sociale e dei servizi; dell’informazione nel veicolare messaggi coerenti; della scuola e di tutto il sistema di istruzione e formazione per incentivare le ragazze a scegliere percorsi STEM. E politiche pubbliche di investimento nelle infrastrutture sociali e a sostegno della condivisione della cura tra donne e uomini. Che è l’arma più potente ed efficace per combattere gli stereotipi di genere. 

Per tutto questo solo il governo può promuovere l’aumento dell’occupazione delle donne come grande obiettivo nazionale di sistema a cui richiamare l’insieme del paese. Solo il governo può convocare l’intera classe dirigente, tutti gli attori sociali e istituzionali, insieme ai diversi ministeri, intorno a proposte concrete per la definizione di un Patto per l’aumento dell’occupazione femminile. 

Non servono piani per il lavoro femminile. Serve un patto con il paese per il suo aumento, serve un impegno di tutti gli attori sociali -ognuno per la propria parte- coerente con gli obiettivi concordati, un cronoprogramma e via via la valutazione d’impatto delle misure. Serve una responsabilità collettiva e un cambio di prospettiva.

Il presidente Draghi ha più volte stigmatizzato come “immorale e miope” l’esclusione delle donne dal lavoro. Per superarla però bisogna appunto rimuoverne le diverse cause. Bisognerà soprattutto chiarire l’equivoco di fondo che nel migliore dei casi ha ispirato fin qui interventi spot e politiche inefficaci perché finalizzate all’obiettivo sbagliato: favorire la possibilità per le madri di conciliare lavoro e cura dei figli. 

E invece no. L’obiettivo più importante da raggiungere è la condivisione della cura tra donne e uomini. Cambiando dunque il modo di intendere la cura, cambiando il modo di intendere il welfare e cambiando anche il modo di intendere il rapporto tra vita e lavoro anche nell’impresa. Cambiando cioè prospettiva. Che è la lezione più profonda del Covid.

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