Gli statali possono scioperare anche durante la pandemia.

di Titti Di Salvo e Valeria Fedeli

(Foto da Internet)

Quando il presidente della Repubblica, Sergio Mattarella, ha richiamato le forze politiche alla responsabilità di fronte ai rischi di rotture sociali, ci ha messo di fronte alla realtà di un paese in cui spesso la dialettica politica è stata confusa con la pratica della delegittimazione dell’avversario. Inaccettabile sempre, intollerabile oggi.

Vorremo, con lo stesso metro di misura, parlare dello sciopero del pubblico impiego proclamato per il 9 di dicembre. L’ostilità diffusa e manifestata da molta parte del mondo politico nei confronti dello sciopero merita più di qualche riflessione. Sicuramente da parte del sindacato, ma non solo da parte del sindacato. Togliamo dalla discussione la scelta di delegittimare lo sciopero come strumento e insieme il sindacato come soggetto. A prescindere da contesto e contenuto. Poi ugualmente si può sostenere, anche con buoni argomenti, che è meglio che il 9 di dicembre lo sciopero non ci sia. Sarebbe meglio per i lavoratori pubblici, con retribuzioni di poco superiori ai mille euro, non rinunciare a una giornata di retribuzione. Sarebbe meglio per il paese che i servizi pubblici funzionassero anche il 9 di dicembre. Sarebbe meglio per tutti che le ragioni di quello sciopero fossero conosciute e affrontate. Quelli del pubblico impiego sono lavoratrici e lavoratori, non eroi, né martiri. Sono 3 milioni e 200mila persone che hanno famiglie e figli, che fanno funzionare la scuola, gli ospedali e la sanità, la polizia, gli uffici pubblici, gli enti locali, i ministeri. Spesso in virtù esclusiva della loro abnegazione. Insomma sono lo stato e la sua faccia. Lo sciopero è stato proclamato, questo dice la piattaforma sindacale, per la sicurezza, per le mascherine che mancano alle maestre degli asili nido, per le assunzioni, per la stabilizzazione dei lavoratori precari, per il rinnovo del contratto. Obiettivi giusti anche in tempo di Covid, anzi a maggior ragione.

L’efficacia della pubblica amministrazione, soprattutto in tempo di smart working, avrebbe bisogno di giovani con competenze digitali adeguate. Perché il blocco del turnover, anno dopo anno, ha determinato che 2 milioni di dipendenti su 3,2 abbiano più di 50 anni e l’ 80% di loro ne abbia più di 40. E poi avrebbe bisogno di una vera riorganizzazione e di un ruolo adeguato dei suoi dirigenti. Che dovrebbe dirigerlo il processo di modernizzazione. L’aumento della retribuzione dei dirigenti, ma anche dei magistrati, dei cancellieri o dei prefetti peraltro è compresa nelle cifre postate nella legge di bilancio per il rinnovo dei contratti. Il che rende non verosimile l’aumento di 107 euro a testa di cui si parla ottenuto dividendo la cifra della legge di Bilancio con il numero dei dipendenti pubblici secondo la media del pollo. Per non parlare dei vuoti lasciati dai pensionamenti della riforma delle pensioni quota 100 decisa dal governo gialloverde.

Sospendere tutto? L’emergenza sanitaria deve dunque bloccare la fisiologia delle relazioni industriali? Nelle imprese private e nel pubblico? Intanto la legge di bilancio ha una valenza di 3 anni. Scavalla la pandemia ed è obbligata a parlare di futuro. In secondo luogo tenere insieme il paese ha come condizione il coinvolgimento anche delle forze sociali nell’emergenza. E nella prospettiva del cambiamento necessario. Spetta al governo realizzarli e promuoverli entrambi. La riforma della pubblica amministrazione è una condizione del cambiamento. Ne sono tutti convinti.

Ma senza i lavoratori le riforme non si fanno, ci dice l’esperienza. In secondo luogo, sappiamo bene che la contrapposizione tra i diritti delle persone che lavorano non porta bene, non porta un euro di più ai più deboli. E sappiamo anche che la modernizzazione del paese è stata trainata dalla scelta di non rinunciare ai diritti del lavoro. Che hanno spinto le imprese verso l’innovazione non potendone più competere sui costi del lavoro. Ma viviamo in una città, Roma capitale, che molti pensano essere irriformabile per la sua dimensione ed estensione e perché, lo dicono in tanti, è la città del pubblico impiego. Quindi inamovibile dalla sua rendita di posizione. Il sindacato deve chiedersi perché. Perché viene considerato ostacolo al cambiamento. Perché la pubblica amministrazione sia vissuta come ostacolo tra il diritto a un ristoro, a una certificazione e il suo esercizio. Anche nel senso comune. Perché tanta ostilità. Non deve sfuggire a questa domanda. Né ora, né dopo. Per evitare la miscela esplosiva di qualunquismo e populismo, respingere solidarietà pelose e rinunciare al cambiamento che ci serve.

Lascia un commento

Il tuo indirizzo email non sarà pubblicato. I campi obbligatori sono contrassegnati *