Lo smart-working è una grande risorsa, ma c’è bisogno di nuove infrastrutture.

di Titti di Salvo

Il consenso dei lavoratori raggiunge picchi dell’80%, più divisi gli imprenditori e i commercianti. Ma l’efficacia cambia a seconda dei territori.

(Foto da Internet)

Con la proroga dello stato d’emergenza appena deciso dal governo, vengono confermate anche per le imprese private le modalità semplificate di utilizzo dello smart-working. Un cambiamento del lavoro che non raccoglie solo consensi, ma anche contestazioni. E’ però molto importante individuare le ragioni degli uni e delle altre, per evitare di addebitare allo smart-working responsabilità o meriti che non gli sono propri. Ci aiuta nell’analisi la moltiplicazione degli studi sull’argomento: dal Politecnico di Milano, all’INAPP, al rapporto Agi-Censis.

Dal punto di vista dei lavoratori il gradimento del lavoro agile è larghissimo: dal 60% testato dal rapporto Agi-Censis all’ 80% emerso dalla indagine della UIL sulle lavoratrici e i lavoratori romani. Con motivazioni diverse. Dalla maggiore sicurezza e dai minori costi legati agli spostamenti, all’accumulo di tempo risparmiato per raggiungere il posto di lavoro. Non è un caso che nell’indagine romana questo elemento abbia un peso rilevante. Roma è la città in cui è maggiore il numero di macchine di proprietà, maggiore il tempo di percorrenza per raggiungere il luogo di lavoro, peggiore la qualità del trasporto pubblico. In molti, però, contemporaneamente hanno lamentato la mancanza di socialità. D’altra parte chi l’ha detto che nella normalità lo smart-working debba essere svolto tutti i giorni di tutta la settimana? In questo modo si trasforma la flessibilità che lo strumento consente in rigidità. Positiva è anche la valutazione delle imprese che apprezzano l’aumento della produttività che ne deriva, dimostrata da molti studi recenti italiani e meno recenti americani.

L’altra faccia della medaglia è un aumento del carico di lavoro, anch’esso testato. In particolare sulle donne e in particolare nel periodo del lockdown in cui hanno sommato il lavoro produttivo, il lavoro di cura dei figli e il lavoro educativo. Naturalmente non è colpa dello smart-working, che anzi avrebbe potuto favorirne al contrario la condivisione per via della coesistenza in casa di entrambi i genitori. Ciò che ha pesato sono invece i consolidati stereotipi nella divisione dei ruoli. Che le politiche pubbliche possono favorire o ostacolare chiarendo che il lavoro da remoto è una modalità flessibile di lavoro, non uno strumento di conciliazione vita- lavoro dedicato alle donne. All’aumento di produttività di cui si riferiva può corrispondere, e questo dimostrano appunto anche gli studi pre-Covid, l’assenza di un termine alla prestazione di lavoro. Ma anche in questo caso la soluzione c’è ed è la definizione di regole contrattuali. Dal diritto alla disconnessione alla volontarietà. Ma a seconda dei territori la qualità della connessione è differente. Disperante in alcuni di essi, fino al 40% del paese, e fortemente limitante per lo svolgimento del lavoro agile. Ed anche in questo caso il problema non è lo smart-working ma il contesto infrastrutturale verso cui è più che urgente indirizzare investimenti digitali, senza i quali non c’è futuro per il paese. Così come verso il rafforzamento delle competenze informatiche degli italiani, oggi all’ultimo posto della classifica europea stilata secondo l’indice Desi.

Pietro Ichino ha sollevato interrogativi sulla qualità, e quantità, del lavoro pubblico svolto da remoto, utilizzando la modalità della provocazione intellettuale che gli conosciamo. Andrebbe approfondito a questo proposito il cambiamento delle modalità organizzative realizzate in concomitanza. Perché quando si parla di smart-working si parla di lavoro per obiettivi, di trasformazioni organizzative, di cambiamento anche delle funzioni dirigenziali. Alcune organizzazioni di imprese hanno lamentato un calo di consumi legati alla diffusione dello smart-working che il rapporto Agi- CENSIS conferma: non solo “crisi della cotoletta” ma le conseguenze della desertificazione del centro. Non c’è dubbio che il cambiamento digitale del lavoro ha effetti sull’organizzazione del tempo delle persone, e quindi dei tempi delle città, della loro configurazione e dei loro spazi, della mobilità urbana. Se governata, potrebbe aver come effetto centri decongestionati e periferie rigenerate, smart-city: città intelligenti in cui vivere meglio. Oltre all’impatto positivo già misurato sulle emissioni e sull’inquinamento. Senza dimenticare che il lavoro da remoto non è home-working, è appunto da remoto. In questo caso e in questo tempo in cui la pandemia ha fatto emergere tutta la fragilità del nostro sistema economico e sociale, l’innovazione e il digitale possono aiutare a costruirne uno migliore, più sostenibile per le persone e l’ambiente. Una nuova normalità senza rimpianti.

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