Un paese per donne, uomini, bambine e bambini.

di Titti Di Salvo

(Foto da Internet)

Dopo la chiusura degli Stati Generali e la fine del lavoro delle task forces, è l’ora delle scelte. Per fare quelle giuste bisogna che la politica si metta in sintonia con la realtà quotidiana della vita delle persone, mettendo in ordine le priorità. E bisogna che lo faccia presto.

Qualche giorno fa l’Ispettorato del Lavoro ha comunicato le cifre delle dimissioni volontarie del 2019: più di 37mila madri hanno lasciato il lavoro. Dal 2011 sono200mila in più. Per i costi, hanno detto, per la mancanza di parenti cui affidare i figli, per gli orari di lavoro. Un elenco di ragioni che fotografa un paese, il nostro, né per donne né per madri né per bambini. Perché quelle motivazioni parlano di servizi carenti e cari, e di rigidità nell’organizzazione del lavoro delle imprese. Non bisogna essere particolarmente preveggenti per immaginare come saranno i dati del 2020: senza interventi forti, con la chiusura delle scuole, la fragilità dei nonni, il lokdown, la crisi economica che ha investito come effetto della pandemia settori ad alta occupazione femminile. Cifre che parlano da sole eppure non dicono ancora tutto. Non dicono della differenza tra desiderio di maternità (e paternità) e realtà, che è esattamente il doppio di quanto le persone si possano permettere. L’ha appena confermato l’Istat. Mentre per il 2020 si prevede un ulteriore calo delle nascite, al di sotto della soglia di 400.000 nuovi nati che sembrava la soglia limite. Con una seria ipoteca sul futuro.

Tutto ciò non è un problema delle donne, e neppure delle madri o dei padri: è un problema del paese. Nei mesi più duri della pandemia è stata redatta la classifica dei lavori essenziali, quelli che bisognava continuare a svolgere uscendo di casa e sfidando il rischio del contagio, perché essenziali all’esistenza e alla resistenza del Paese. Molti lavori essenziali sono stati svolti da donne, prima del Covid e dopo il Covid, poco pagati e poco riconosciuti socialmente. Il valore sociale e la dignità del lavoro sono un problema del paese. È anche successo, in quei mesi, che i 570mila lavoratori e lavoratrici in smart-working di gennaio diventassero rapidamente 8 milioni. La pandemia è diventata il più grande acceleratore della trasformazione del lavoro.

Il cambiamento del lavoro trainato dal digitale è un tema squisitamente politico, perché cambia il rapporto tra le persone e il lavoro e tra il lavoro e la vita. Cambia il modo delle persone di vivere nel proprio ambiente privato e nello spazio pubblico, e cambia il contesto. E l’ambiente. Impossibile non legare la diffusione sempre maggiore dello smart-working con l’utilizzo degli spazi di coworking, il piano degli orari delle città, l’utilizzo differente degli spazi pubblici, le smart-city. Giusto agire per la definizione certa nei contratti delle modalità di svolgimento della prestazione: dall’autonomia nella gestione dei tempi alla sicurezza, al diritto alla disconnessione.
E, anche in questo caso, non è un problema delle donne.

Né lo smart-working può essere utilizzato contro le donne come sarebbe nei fatti se lo si pensasse come strumento dedicato all’occupazione femminile. A certificare la conciliazione dei tempi di vita e di lavoro è un affare che riguarda loro. Come a dire, un aiuto alla cristallizzazione degli stereotipi. È un problema del paese che le grandi trasformazioni del lavoro indotte dall’innovazione digitale siano veicoli di libertà e autonomia, e quindi qualità del lavoro per donne e uomini. E vantaggio per l’intero sistema economico.

E anche il gender gap non è un problema delle donne. Qualche giorno fa l’ha detto il Comitato europeo dei diritti sociali del Consiglio d’Europa, condannando il nostro paese perché ha fatto insufficienti progressi nel promuovere uguali opportunità per pari retribuzioni. Non perché ha mancato di modificare leggi e contratti, perché in Italia la parità salariale esiste. Nelle leggi e nei contratti. A scavare, soprattutto nel lavoro dipendente, le differenze retributive nascono per tutte quelle erogazioni salariali non contrattate e per quelle legate alla presenza. Perché sono le donne ad accumulare le assenze legate alla cura delle persone. Perciò la terapia per rimediare al “più grande furto della storia”, come è stato definito il gender gap, deve cominciare dalla condivisione tra donne e uomini delle responsabilità della cura e nel riconoscimento del valore del lavoro di cura come contributo alla ricchezza del paese e alla sua sostenibilità, piuttosto che come assenze. Non dare valore alla cura della comunità è forse un problema delle donne? No, è un problema del paese. Come ha dimostrato il Covid-19. Come lo è la bassa partecipazione femminile al mercato del lavoro, che si paga in termini di svariati punti di Pil, il 7 % dice Banca d’Italia, per usare un linguaggio che dovrebbe essere più comprensibile. Oggi ulteriormente a rischio per gli effetti della pandemia, dice l’Istat. E così accade anche rispetto alle opportunità lavorative per i giovani.

Come sono un problema del paese gli investimenti insufficienti in infrastrutture sociali, materiali e immateriali, in istruzione e ricerca. Oggi che la grande vulnerabilità del nostro modo di vivere e di produrre è venuta fuori in modo così netto, avere consapevolezza e conto dei problemi è decisivo per realizzare le grandi riforme necessarie al superamento di quegli stessi problemi. In realtà è tutto molto chiaro. Da sempre. Un paese per donne e uomini è un paese migliore, più moderno e solidale. Non sappiamo se quello che stiamo costruendo guardi davvero al futuro come ci piace immaginare. Dipenderà anche da chi guiderà i processi di oggi, e dalla capacità delle donne nelle istituzioni, in parlamento, dentro e fuori i partiti di imporre gli aut aut che servono.

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