Smart-working e digital divide, sfide del futuro dei lavoratori.
di Titti Di Salvo
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Quando nel maggio del 1970 divenne legge lo Statuto dei Lavoratori, nei luoghi di lavoro entravano la libertà, la dignità e la sicurezza dei lavoratori. L’art.18 era l’architrave su cui era costruito tutto: il diritto del lavoratore ad essere reintegrato quando il giudice definisse non giustificato il suo licenziamento. Nel 2012 con la Legge Fornero, e poi nei 2015 con il Job Act, l’art.18 cambia e nella sostanza il reintegro rimane per i licenziamenti discriminatori, sostituito per il resto da un’indennità di risarcimento, anch’essa messa in discussione da una sentenza della Corte Costituzionale.
Non condivido la tesi dello smarrimento della sinistra sul tema o dell’accanimento liberista contro. Propendo di più verso una ricostruzione storica, legata appunto alla forza della realtà del cambiamento.
La globalizzazione e la rivoluzione tecnologica hanno modificato la divisione internazionale del lavoro, i processi produttivi e la nozione stessa di “lavoro”. E di “fabbrica”. Ed è cambiata, e produce essa stessa cambiamento, la partecipazione delle donne al mercato del lavoro. Ora se il sistema dei diritti del lavoro rimane eguale, e uguale la rete di protezione sociale, il risultato è la solitudine e l’esclusione di molta parte del mondo del lavoro, fatto di lavoratori precari o autonomi, di lavoratrici autonome e dipendenti: si accentuano diseguaglianze e non si realizzano diritti. Ne risente l’autorevolezza del sindacato. Anche della politica e del riformismo. Ora un punto deve essere chiaro: il cambiamento profondo di questi tempi non è l’alibi per negare libertà e dignità del lavoro, ma la realtà nella quale calare un nuovo sistema di diritti.
Questi mesi ci aiutano a capire in che direzione andare. L’emergenza pandemica e il distanziamento sociale hanno spinto verso l’utilizzo di piattaforme telematiche. Per lavorare ma anche per mantenere relazioni sociali, accelerando processi che in altri paesi europei sono molto più avanzati. E ha fatto emergere la scarsa alfabetizzazione digitale dell’Italia. La pandemia ha accelerato la necessità di colmare il digital divide che produceva e produce esclusione sociale e diseguaglianze. Il tema che emerge è come l’istruzione e la formazione permanente siano l’architrave del nuovo sistema dei diritti dei cittadini, dei lavoratori e delle lavoratrici.
Questi tempi ci insegnano anche che va di moda lo smart-working. Con il Coronavirus, quella telematica è diventata l’unica modalità di lavoro possibile in alcuni settori, e in poco tempo il numero degli addetti è passato dal 570mila persone di gennaio a 8 milioni. La recente indagine della Fondazione Di Vittorio dice che lo smart-working piace al 60% di persone che lo fanno. Più agli uomini che alle donne, e se ne capisce la ragione: perché può rappresentare per loro un ulteriore appesantimento del carico del lavoro di cura, come è stato nel lockdown senza il supporto della scuola, delle baby sitter e dei nonni. Ma può rappresentare per il futuro il suo contrario. Quindi il nuovo tema è quello di un diverso rapporto con il lavoro e tra lavoro e vita, che lo Smart working determina: le regole vanno pensate in modo tale da realizzare questa modalità.
La pandemia ha anche mostrato la gerarchia dei lavori essenziali: sono emersi quelli di cura, a partire dalle professioni sanitarie, quelli manuali, gli addetti alla raccolta, produzione e distribuzione delle filiere alimentari, la logistica, gli addetti alle pulizie, l‘insegnamento. Essenziali per la collettività e non sostituibili con tecnologie avanzate. Si tratta per la maggior parte di lavori poco pagati e privi di riconoscimento sociale, svolti prevalentemente dalle donne. Sono lavori che non si possono fare in smart-working, ma che possono essere aiutati dalla tecnologia. Le stime di Banca d’Italia sul rapporto tra partecipazione delle donne al mercato del lavoro e crescita del paese dimostrano che se il tasso di occupazione fosse pari a quello europeo (oggi in Italia è il 49%) il Pil aumenterebbe del 7%. Nonostante il ruolo delle donne nel sostenere il paese nell’emergenza Covid, c’è il rischio della sottovalutazione del loro contributo e del loro punto vista nella definizione di un sistema migliore. Perciò ancora più forte è la necessità di metterlo al centro nella discussione pubblica. Ed è un tema che interroga il sindacato e interroga le imprese, ma anche la politica.